Ansia e disturbi d'ansia


Ansia

L'ansia viene generalmente considerata dai professionisti della salute mentale come "la madre di tutte le emozioni". In questo articolo cercheremo da un lato di spiegare le differenze tra l’ansia e le altre emozioni ad essa affini, dall'altro di distinguere un’ansia intesa come condizione esistenziale (per cui ogni essere umano ha fatto e fa esperienza dell’ansia) da un’ansia patologica. Successivamente prenderemo in considerazione la sintomatologia alla base dei diversi disturbi d'ansia e, per concludere, le caratteristiche principali di ciascun disturbo.

Dal punto di vista etimologico, la parola "ansia" deriva dal termine tardo latino “anxia” (da angere, stringere). L’area semantica dell’ansia, generalmente, include definizioni come: “stato tormentoso dell’anima, provocato dall’incertezza circa il conseguimento di un bene sperato o la minaccia di un male temuto”, mentre l’ansietà (lo stato ansioso) viene così definita dai dizionari: “Inquietudine tormentosa, trepidazione (causate da uno stato di dubbio, di timore o da intensa, violenta bramosia); angustia, affanno, dolorosa apprensione”.

Le funzioni dell'ansia

Dal punto di vista esistenziale, l'ansia svolge precise funzioni adattive. Una di queste è quella di segnalarci lo stato di successo o di fallimento (attuale o previsto) nel raggiungere i nostri obiettivi e attivare il nostro organismo nella direzione del loro raggiungimento. È il caso, ad esempio, di quegli studenti universitari che tendono a preparare gli esami solo all'ultimo momento quando arriva l'attivazione ansiosa relativa al superamento dell'esame ormai prossimo, che funge da spinta sufficiente per dedicarsi allo studio.

Un'altra funzione dell'ansia, forse ancora più importante, è quella di costituire una tipica risposta alle situazioni di pericolo (reale o presunto tale). Di fronte al pericolo gli esseri umani sviluppano reazioni emotive diverse: ansia, paura, angoscia, panico, terrore, ecc. Tali stati emotivi, sotto certi aspetti, svolgono funzioni simili e questo fa si che, alle volte, possa non essere semplice distinguerli.

Ciò che accomuna e differenzia le risposte emotive al pericolo è il loro contenuto cognitivo da un lato e la reazione somatica che le accompagna dall'altro. Il contenuto cognitivo riguarda generalmente la percezione di un pericolo imminente e, l'emozione esperita, sarà tanto più intensa quanto più grande si ritiene essere il pericolo. La reazione somatica invece consiste in uno stato di allarme che ha il fine di porre l'organismo nelle condizioni migliori per opporsi al pericolo o per mettersi in salvo (attraverso il famoso schema comportamentale di "attacco o fuga" che condividiamo con gli animali).
In questo senso, mentre la paura è maggiormente legata alle situazioni presenti, a pericoli in corso (l'oggetto della paura è conosciuto), l'ansia è relativa a eventi non immediati e può essere sperimentata anche in assenza della consapevolezza del pericolo. Proprio per questo, l'attivazione fisica dell'ansia è meno intensa di quella della paura, del panico o del terrore.

Ansia patologica

Il confine tra un'ansia funzionale e un'ansia difunzionale non è sempre immediatamente chiaro. In linea generale possiamo dire che esistono grandi differenze individuali nel modo in cui ci rapportiamo a noi stessi e alla realtà che ci circonda e che, queste differenze, influenzano la nostra propensione a provare ansia. Le esperienze di vita, l'educazione e la società plasmano l'idea che ognuno di noi ha del livello di pericolosità del mondo esterno e delle nostre capacità di fronteggiare i pericoli. Su queste basi costruiamo la percezione che abbiamo di noi stessi nel mondo e strutturiamo modi peculiari di relazionarci ad esso col fine di tutelarci da esperienze inutilmente dolorose.

Normalmente proviamo ansia quando percepiamo le situazioni come pericolose e noi stessi senza risorse per affrontarle: è un'esperienza comune a tutti quanti. In questo caso l'ansia funziona correttamente come segnale e, prendendone atto, possiamo predisporci ad elaborare nuove strategie per superare le difficoltà. Quando invece l'ansia smette di essere percepita come un segnale, diventando essa stessa una minaccia, cessa di svolgere la sua funzione e ci predispone a sviluppare un disturbo. In questi casi possiamo arrivare a pensare che l'ansia sia la prova conclamata della nostra vulnerabilità e cercare in ogni modo di contrastarla ingaggiando una lotta contro noi stessi. Oppure, sentendoci particolarmente vulnerabili, possiamo cercare di esercitare un maggior controllo sull'ambiente alla ricerca costante di possibili indizi di minaccia. In entrambi i casi finiremmo con l'elevare lo stato di allerta e di tensione favorendo, paradossalmente, l'esacerbazione dei sintomi ansiosi. Per non provare le sensazioni spiacevoli dell'ansia alcuni iniziano ad evitare tutte quelle situazioni in cui si sentono in difficoltà, arrivando così a limitare il proprio stile di vita.

Quando sviluppiamo un disturbo d'ansia, generalmente iniziamo a sentirci vulnerabili e a mettere in dubbio noi stessi e le nostre capacità. I sintomi dell'ansia possono prendere il sopravvento: una parte consistente della giornata può essere assorbita da pensieri e comportamenti connessi al controllo o all’evitamento di ciò che temiamo. Possiamo incontrare difficoltà a lavoro e nelle relazioni mentre, lo stato di costante allerta, rende tutto più faticoso peggiorando le nostre capacità di far fronte anche a quelle situazioni che una volta venivano vissute senza problemi.

I sintomi dell'ansia

I diversi disturbi d'ansia si differenziano tra loro attraverso peculiari costellazioni di sintomi. In questo articolo intendiamo offrire una panoramica della sintomatologia ansiosa a prescindere dalle specificità di ciascun disturbo. I sintomi di un disturbo d'ansia si esprimono attraverso diversi canali: quello cognitivo, affettivo, comportamentale e fisiologico.

Mentre alcuni sintomi cognitivi costituiscono una versione intensificata di funzioni normali (come l’autoconsapevolezza e l’ipervigilanza), altri sembrano essere il risultato dell’inibizione di normali funzioni (ad esempio la perdita di concentrazione e i blocchi), altri ancora denotano un’erosione delle capacità di valutazione (come la perdita di obiettività).

I sintomi affettivi dell'ansia sono spesso quelli più vistosi: la persona può sentirsi irritabile, impaziente, a disagio, nervoso, teso, suscettibile, timoroso, spaventato, terrorizzato, allarmato, atterrito, eccitato, agitato, ecc.

I sintomi comporamentali dell'ansia generalmente riflettono o l’iperattività del comportamento oppure la sua inibizione. Vi può essere infatti inibizione; immobilità del tono muscolare; fuga; evitamento; linguaggio difficoltoso; coordinazione difettosa; agitazione; collasso; iperventilazione. L’immobilità del tono muscolare è un’espressione della reazione di blocco, mentre il comportamento agitato e i tremori rappresentano la mobilitazione del corpo per l’azione.

I sintomi fisiologici nei diversi disturbi d’ansia possono interessare: l’attività cardiovascolare (palpitazioni, aumento del ritmo cardiaco, aumento della pressione sanguigna; oppure debolezza, svenimento, calo della pressione sanguigna, calo del ritmo cardiaco), dell’apparato respiratorio (difficoltà respiratorie, pressione al torace, nodo alla gola, sensazione di soffocamento, respiro affannoso, rapido o superficiale, ecc.), del sistema neuromuscolare (incremento dei riflessi, reazione d’allarme, palpebra contratta, insonnia, spasmo, tremore, rigidità, agitazione, espressione contratta, camminare nervosamente, vacillare, debolezza generalizzata, gambe traballanti, movimenti goffi), dell’apparato gastrointestinale ( dolore addominale, perdita d’appetito, repulsione per il cibo, nausea, bruciore di stomaco, fastidio addominale, vomito), del tratto urinario (impulso a orinare, frequenza della minzione) e della pelle (rossore al volto oppure volto pallido, sudorazione localizzata o diffusa, momenti di caldo o freddo, prurito).

Disturbi d'ansia

I disturbi clinici in cui l’ansia svolge un ruolo centrale sono:

  •  Disturbo da attacchi di panico: un attacco di panico corrisponde a un periodo preciso durante il quale vi l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione, paura o terrore, spesso associati con una sensazione di catastrofe imminente. Durante questi attacchi sono presenti sintomi come dispnea, palpitazioni, dolore o fastidio al petto, sensazione di asfissia o di soffocamento, sbandamento o vertigine, senso di instabilità, sentimenti di irrealtà, parestesie, vampate di calore o sensazioni di freddo, sudorazione, senso di svenimento e paura di “impazzire” o di perdere il controllo. Gli attacchi di solito durano pochi minuti, più raramente ore..
  • L’Agorafobia: la caratteristica essenziale è una intensa paura di essere soli o di trovarsi in luoghi pubblici dai quali, nel caso di un improvviso malore, la fuga può essere difficile o l’aiuto non disponibile. Le attività normali vengono sempre più ridotte man mano che le paure o i comportamenti di evitamento prendono il sopravvento. Le situazioni più comunemente evitate includono l’essere tra la folla, per esempio in una strada, o in un negozio pieno di gente, oppure in  ascensore, su un mezzo pubblico, ecc.
  • La Fobia Specifica: è caratterizzata da un’ansia clinicamente significativa provocata dall’esposizione a un oggetto o a una situazione temuti, che spesso determina condotte di evitamento.
  • Disturbo d'Ansia Sociale: è caratterizzata da un’ansia clinicamente significativa provocata dall’esposizione a certi tipi di situazioni o di prestazioni sociali, che spesso determinano condotte di evitamento. La persona teme ed evita attivamente situazioni sociali in cui potrebbe mostrarsi inadeguato ed essere esposto al giudizio negativo degli altri. In questo caso ad essere in pericolo è l’immagine di sé e, l’emozione più temuta, è la vergogna.
  • Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo: è caratterizzato da ossessioni (che causano ansia o disagio marcati) e/o compulsioni (che servono a neutralizzare l’ansia). La persona mette in atto faticosissime strategie (le compulsioni) per garantirsi, inutilmente, che un certo evento non accada. L’emozione più temuta, in questi casi, è la colpa.
  • Il Disturbo Post-traumatico da Stress: è caratterizzato dal rivivere un evento estremamente traumatico accompagnato da sintomi di aumento dell’arousal e da evitamento di stimoli associati al trauma. La persona, infatti, tende già da se a rivivere di continuo nella memoria e nei sogni un’esperienza traumatica particolarmente rilevante.
  • Il Disturbo d’Ansia Generalizzato è caratterizzato da almeno 6 mesi di ansia e preoccupazione persistenti ed eccessive. In questi casi la preoccupazione può estendersi a macchia d’olio su tutto senza più concentrarsi su aspetti particolari. Il soggetto vive costantemente in un mondo che giudica imprevedibile e pericoloso mentre si sperimenta incapace di fronteggiarlo.

Disturbo ossessivo compulsivo

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (D.O.C.) ha caratteristiche sue proprie e si inquadra a fatica tra i disturbi d'ansia.

Le “ossessioni” sono infatti un fenomeno specifico che non va confuso con le preoccupazioni che sovente possono accompagnare i fenomeni d’ansia e le manifestazioni depressive. Le ossessioni sono delle idee, pensieri, impulsi o immagini persistenti che vengono esperiti, almeno inizialmente, come intrusivi e senza senso. Le persone generalmente reagiscono alle ossessioni tentando di ignorarle, di sopprimerle e di neutralizzarle con altri pensieri o azioni.

Le "compulsioni" sono comportamenti ripetitivi che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un’ossessione, secondo regole che devono essere applicate rigidamente. Tali comportamenti sono finalizzati e intenzionali: hanno lo scopo di neutralizzare o prevenire qualche disagio, qualche evento o situazione temuti. In linguaggio tecnico le compulsioni sono dette anche “rituali” o “cerimoniali”: sono comportamenti non connessi in modo realistico con ciò che dovrebbero neutralizzare o prevenire, e sono considerati chiaramente eccessivi anche agli occhi di chi è costretto ad eseguirli.


Le forme più comuni di ossessione sono:

 • ossessioni aggressive (preoccupazioni sull'idea di poter far male a sé o agli altri, pronunciare oscenità o insulti, rubare oggetti ecc.);
ossessioni di contaminazione (preoccupazione o disgusto per i rifiuti o le secrezioni del corpo, per lo sporco, per i germi, per contaminanti ambientali, animali ecc.)
ossessioni sessuali (pensieri, immagini o impulsi sessuali proibiti o perversi; pensieri di pedofilia o incesto od omosessualità ecc.);
ossessioni di accaparramento/accumulo;
ossessioni a sfondo religioso (preoccupazioni rispetto a sacrilegi o peccati di blasfemia; eccessiva moralità ecc.);
ossessioni di simmetria o di precisione
ossessioni varie (necessità di sapere o ricordare; timore di dire certe cose; timore di non dire proprio la cosa giusta; paura di perdere oggetti ecc.);
ossessioni somatiche (preoccupazioni per le malattie; eccessiva preoccupazione per alcune parti del corpo o per l’aspetto ecc.).


Le forme più comuni di compulsione sono:


 • compulsioni di pulizia/lavaggio (eccessivo o ritualizzato lavaggio delle mani, fare la doccia, fare il bagno, lavarsi i denti, pettinarsi, pulirsi in generale; pulizia della casa o di altri oggetti inanimati ecc.);
compulsioni di controllo (serrature, stufe ecc.; che non sia avvenuto o non avverrà alcun danno a qualcuno o a se stessi; che non sia successo o non succederà nulla di terribile; che non si commetteranno errori ecc.);
rituali ripetuti (riscrivere o rileggere; necessità di ripetere attività di routine come entrare/uscire da una porta, sedersi/alzarsi da una sedia ecc.);
• compulsioni relative al contare;
• compulsione di riordino/ridisposizione;
• compulsioni di accaparramento/accumulo (di posta, di vecchi giornali, di rifiuti, di oggetti inutili ecc.; ciò va distinto dalla raccolta per hobby o di preoccupazione per oggetti di valore sentimentale o monetario);
compulsioni varie (rituali mentali; compilazione eccessiva di elenchi; necessità di dire, chiedere, confessare ecc.).


La relazione tra ossessioni e compulsioni può essere definita sulla base della loro relazione funzionale con l’ansia o il distress: mentre le ossessioni producono stati di ansia o distress, le compulsioni sono azioni (mentali o comportamentali) eseguite nel tentativo di attenuare tali stati. Non esistono compulsioni senza ossessioni, esistono tuttavia ossessioni senza compulsioni (ossessioni pure).
Sia le ossessioni che le compulsioni possono essere considerate – alla stregua della qualità del sonno, dell’umore, dell’appetito, della tensione, dello stress, ecc – quali indicatori del benessere e del disagio psicologico generale di un individuo. Raramente ossessioni e compulsioni raggiungono un’intensità, frequenza e caratteristiche tali da interferire significativamente con la vita quotidiana della persona e risultare invalidanti in vario grado come per chi soffre di un Disturbo Ossessivo Compulsivo.


La ricerca in psicologia individua alcuni fattori (o “assunzioni implicite") che, se da un lato predispongono lo svilupparsi di un disturbo ossessivo compulsivo vero e proprio, dall’altro possono favorirne il mantenimento:
1. Responsabilità. Un sovradimensionamento della nozione di responsabilità secondo la quale l’interessato disporrebbe di un grado speciale di responsabilità nel prevenire o determinare effetti dannosi nel mondo reale o morale. Pertanto il fatto di non riuscire a prevenire eventuali danni, per omissione, incapacità o impossibilità, è considerato alla stregua di una colpa personale oggettiva.
2. Pensiero. Assunzione secondo la quale la semplice presenza o formulazione di un pensiero ha implicazioni sul piano reale.
3. Controllo del pensiero. L’assunto di base è che le persone dispongano di un alto grado di controllo sul pensiero spontaneo e siano responsabili. Ciò comporta un monitoraggio frequente di pensieri o immagini mentali presenti alla mente, un senso di responsabilità per l’eventuale presenza di contenuti indesiderati, un obbligo ad allontanarli.
4. Aspettative sul pericolo. Implica una sovrastima sistematica della probabilità di certe evenienze pericolose ed una sovrastima della loro gravità e delle conseguenze.
5. Senso di sicurezza. Riguarda due schemi connessi tra di loro: la necessità di raggiungere una certezza del 100% e una scarsa fiducia nelle proprie capacità di far fronte a una situazione nuova, incerta o ambigua.
6. Perfezionismo. Una tendenza ad assumere che possa esistere una “soluzione perfetta” per ogni problema e che soluzioni “imperfette” possano avere conseguenze disastrose.


Secondo alcuni ricercatori le ossessioni sono fenomeni molto comuni che tendono a scomparire da sole nella maggior parte delle persone. È quando vengono a loro volta considerate pericolose o di speciale importanza che persistono, causando ansia e depressione e, soprattutto, la messa in atto di comportamenti di “neutralizzazione” (“rituali” o “compulsioni”) che possono innescare un circolo vizioso che può portare al disturbo ossessivo compulsivo vero e proprio.

Una tra le caratteristiche più evidenti del disturbo ossessivo compulsivo è rappresentata dai dubbi: un’antica denominazione del disturbo, infatti, è la "manie du doute". Il dubbio viene alimentato, in genere, dalla mancanza di fiducia nella capacità di ricordare gli eventi o, in termini più generali, dalla sensazione nei soggetti di non “sapere se sanno qualcosa”. Un’altra tra le caratteristiche centrali di chi soffre un disturbo ossessivo compulsivo, è la scarsa tolleranza all’incertezza relativa al campo della propria ossessione. Questa incertezza è spesso ritenuta molto più sgradevole del verificarsi reale dell’evento temuto; anzi, in taluni casi, alcune persone preferiscono che l’esito temuto si verifichi, piuttosto che rimanere nella sgradevole situazione d’incertezza.

 Il dubbio e la scarsa tolleranza all’incertezza sono strettamente connessi e portano all’elaborazione di strategie (pensieri o azioni rituali) volti a neutralizzare il dubbio stesso. A sua volta, l’impegno profuso in questi tentativi di neutralizzazione produce una maggiore tendenza a emettere azioni compulsive, una difficoltà maggiormente elevata nell’interromperle e un più acuto disagio nel soggetto. Alcune ricerche (Horowitz) evidenziano una correlazione diretta tra la quantità di pensieri o immagini intrusivi e lo stress provato da chi soffre di questo disturbo.


Il Disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è caratterizzato dalla presenza di ossessioni che causano un disagio marcato, fanno consumare tempo (anche più di un’ora al giorno) o interferiscono con le normali abitudini quotidiane, con il funzionamento lavorativo (o scolastico) o con le attività e le relazioni sociali. Il disturbo è parimenti rappresentato nei maschi e nelle femmine e la prevalenza nel corso della vita è stimata attorno al 2,5%. In passato la prognosi relativa alla risoluzione del disturbo ossessivo compulsivo (DOC) era piuttosto sfavorevole. Ad oggi, invece, l'affinarsi delle conoscenze e delle metodologie di intervento in psicoterapia, permettono una prognosi decisamente più favorevole in tempi di trattamento anche relativamente brevi.




Ansia, depressione e solitudine

Ansia e Depressione: il contesto


Ansia, Depressione, Solitudine diventano condizioni esistenziali che si incastrano tra loro e che sono sempre più diffuse tra i giovani nella fascia d’età compresa tra  i 25 e i 40 anni.
Questo fenomeno, in crescente aumento, dipende da molteplici fattori che interessano prevalentemente la sfera lavorativa e affettiva. In questa fascia d’età, la stabilità nell’ambito professionale e sentimentale rappresenta un prerequisito importante per raggiungere quella maturità ed autonomia che ci permettono di fare delle scelte importanti e di dare una direzione ben precisa alla nostra vita.
Per alcuni risulta essere molto frustrante l’impossibilità di accedere ad un’occupazione lavorativa che garantisca un’autonomia economica; per altri è avvilente e demoralizzante ricoprire un posto di lavoro non adeguato ai propri titoli e alle proprie capacità. Altri ancora, nonostante abbiano la possibilità di lavorare o di studiare, non riescono a intrattenere legami affettivi e sentimentali significativi, oppure vivono una situazione di isolamento sociale. In alcuni casi, due o più delle condizioni descritte sopra, coesistono.



Fallimento personale percepito


Questo status psicologico e sociale spesso conduce ad un ritardo nello svincolo dalla famiglia d’origine, dalla quale risulta difficile differenziarsi e aumenta la sensazione di inefficacia, il senso di impotenza, di insoddisfazione e di fallimento nella crescita personale. Tra i molti giovani alle prese con questa nuova condizione psicologica e sociale, alcuni possono contare sul sostegno affettivo ed economico dei propri cari mentre altri non hanno validi punti di riferimento affettivo.
Il fattore  che accomuna le persone coinvolte da questo malessere psico-sociale e che risulta essere più destabilizzante per loro, è la percezione di non riuscire  a realizzarsi come persona, la sensazione di vivere uno stato di immobilità e ristagno nel quale sono sempre più risucchiate, fino a rassegnarsi e sperimentare questo stallo come uno stile di vita che si sostituisce progressivamente alle proprie ambizioni, alla speranze, alle aspettative su se stessi e sulle proprie capacità.
È molto frequente che persone anche molto giovani, in queste circostanze, incorrano in disturbi d’ansia o stati depressivi che rinforzano ulteriormente la consapevolezza del proprio insuccesso, come in un circolo vizioso.


Disturbi d'ansia


I disturbi che maggiormente accompagnano questo tipo di disagio, sono prevalentemente i disturbi d’ansia.
Prima di tutto è bene ricordare che l’ansia non è sempre un fenomeno distruttivo. L’ansia rappresenta un’emozione di base che ha una funzione primaria nell’evoluzione dell’uomo in quanto comporta uno stato di attivazione neurovegetativa e vigilanza (arousal) funzionale alla sopravvivenza.
Questa componente emozionale si attiva ogni qualvolta una situazione viene percepita come soggettivamente pericolosa. In questi casi, le reazioni animali più comuni sono l’immobilità, la fuga, l’attacco o la ricerca di prossimità con una figura che reputiamo protettiva.

Se il nostro organismo non fosse in grado di sperimentare l’ansia, non riuscirebbe ad individuare il pericolo e a reagire ad esso. In queste circostanze si tratta di ansia fisiologica .
Essa diventa invece ansia patologica  quando persiste in assenza di stimoli potenzialmente pericolosi e comporta una preoccupazione immotivata.

Nella vita di tutti i giorni, alcune persone potrebbero manifestare una forma di ansia eccessiva di fronte a situazioni che, fino a qualche settimana prima, non sortivano alcuna agitazione e che, improvvisamente, diventano fattori ansiogeni. Altre persone potrebbero reagire in modo ansioso di fronte all’assunzione di responsabilità che, in quel momento, non riescono a sostenere, per esempio in campo lavorativo o affettivo.
A volte la sorpresa nello scoprire di essere meno forti o determinati di quanto si pensava, può disorientare, confondere e minare la fiducia in se stessi e nelle proprie capacità, soprattutto se non se ne conoscono le cause. Spesso questa situazione è accompagnata dalla fantasia di aver deluso noi stessi, le persone che credevano in noi e disatteso le aspettative: questa percezione è tanto più dolorosa quanto più noi siamo abituati a vederci come delle persone capaci, disciplinate, perfezioniste.

La certezza del proprio valore si sgretola giorno dopo giorno, lasciando un profondo malessere di cui non si capisce bene l’origine e, questa ulteriore incertezza, contribuisce ad alimentare la sensazione che stiamo perdendo il controllo sulla nostra vita e il potere di darle una direzione. L’ansia che, nel nostro passato, era utile ad affrontare le sfide quotidiane, gradualmente si trasforma in un nemico che inibisce la nostra efficienza personale e sociale.

All’interno di questo contesto, il disturbo d'ansia compare quando l’individuo è pervaso da una preoccupazione esagerata nei confronti della propria capacità di attivazione che viene considerata rovinosa e inaccettabile e diventa essa stessa un pericolo a cui reagire.
In questi casi la reazione d’allarme è sproporzionata e irragionevole ed è alimentata dall’idea di fondo di non essere in grado di sostenere la situazione, di non averne il controllo e quindi andare incontro alla sicurezza di un insuccesso.


Ansia e senso di inadeguatezza


Il disturbo d’ansia comporta quotidiane limitazioni nelle persone che ne soffrono, divenendo sempre più invalidante e un ostacolo per la propria vita sociale, affettiva, lavorativa con l’aggravante che aumenta la propria percezione di inadeguatezza.

Infatti spesso la persona che soffre di un disturbo d’ansia, si percepisce come un individuo disadattato, deficitario e  tende a sottrarsi  alla situazione temuta adottando un comportamento attivo di evitamento degli altri e delle situazioni che incrementa ulteriormente l’ansia anticipatoria per gli eventi futuri.
Questo circolo vizioso ingabbia l’individuo nella condizione di perenne procrastinatore e provoca un’ inevitabile demoralizzazione secondaria dovuta al senso di sconfitta e rinuncia che, in breve, può contribuire all’insorgenza di un disturbo depressivo. Spesso, alle manifestazioni di ansia, si alternano stati fisici di forte debolezza, astenia, pesantezza presenti fin dalla mattina  e a causa dei quali ogni piccolo gesto, soprattutto se si tratta di uscire di casa, diventa un’impresa insormontabile.


L' Attacco di panico


Altre volte, questo senso di inadeguatezza, si presenta sotto forma di un attacco di panico, ovvero  la manifestazione improvvisa e limitata nel tempo di una forte ed eccessiva paura che raggiunge rapidamente il picco di un’escalation provocando reazioni fisiche molto intense come tachicardia, sudorazione abbondante, capogiri, tremori, sensazione di soffocamento, vampate di calore, nausea, paura di morire, sensazione di svenimento o mancamenti, derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da sé stessi)….
L’attacco di panico spaventa, sorprende e confonde. Lascia nella persona l’idea di non essere più in grado di gestire determinate situazioni, semina insicurezza soprattutto perché è al di fuori del nostro controllo e ci fa confrontare con la nostra impotenza e con l’imprevedibilità del nostro corpo. Quando la persona ha ripetuti attacchi di panico o prova una forte ansia in merito alla possibilità di avere nuovamente un attacco di panico, insorge un disturbo di panico .


Terapia e controllo sul malessere


Molti giovani adulti sono sempre più interessati dai disturbi descritti sopra e questo, in larga parte, oltre a dipendere dal senso di insicurezza e precarietà frutto del nostro tempo,  proviene anche da una conoscenza incompleta delle proprie risorse e potenzialità, oltre che dei propri limiti. Questa inconsapevolezza provoca un pesante disagio nelle relazioni e nell’espressione di noi stessi , disagio che blocca la propria crescita e riuscita personale, allontanandoci sempre di più dalla direzione desiderata. Durante queste fasi di transizione, fisiologiche nella vita di una persona, ma disfunzionali se persistono, un percorso terapeutico offre un valido contesto di aiuto. La terapia diventa una preziosa opportunità di evoluzione personale e un bagaglio esperenziale che fornisce gli strumenti necessari a rileggere in modo utile e produttivo le proprie vicende e vissuti emotivi, trovare delle soluzioni praticabili e restituire dignità e potere alle proprie naturali vulnerabilità.




Ipocondria

 "Ipocondria" è un termine che ha origini antiche: la prima descrizione risale ad Ippocrate (V sec. a.C.) che parla del “male degli ipocondri”, responsabile di un disordine delle funzioni digestive, ma anche di sofferenza psicologica, che cagiona melanconia con paura di morire. Il termine deriva dalla denominazione greca della zona superiore dell'addome - gli ipocondri "sotto le coste" - cioè la sede del fatidico "mal di pancia", laddove si fanno sentire i sentimenti e le passioni viscerali. Ad oggi il termine “ipocondria” sta comunemente ad indicare dalla più semplice paura di ammalarsi fino al terrore di aver contratto o sviluppato malattie gravissime, invalidanti o mortali.


A tutti può accadere in qualche occasione di preoccuparsi in maniera eccessiva di una sensazione insolita o di un dolore fisico inaspettato e di temere, di conseguenza, che esso possa essere segnale di una qualche grave malattia. Ciò che differenzia l'ipocondria dal normale timore di essere affetti da qualcosa di grave è il modo in cui la paura si manifesta: non sporadica bensì sistematica e prolungata, accompagnata da un'insistenza che diviene per lo più ossessionante.


Dal punto di vista medico e psicologico, l’ipocondria è una realtà clinica che, sebbene condivida molte delle caratteristiche dei disturbi d’ansia, viene considerata un disturbo somatoforme caratterizzato dalla “preoccupazione legata alla paura oppure alla convinzione di avere una malattia grave” che si basa sull’interpretazione soggettiva di segni somatici in qualità di sintomi di una grave malattia. La persona attribuisce questi sintomi o segni alla malattia sospettata ed è molto preoccupata per il loro significato e per la loro causa. Le preoccupazioni possono riguardare numerosi apparati, in momenti diversi o simultaneamente (spesso la malattia è percepita a carico dell’apparato cardiovascolare o gastrointestinale). In alternativa ci può essere preoccupazione per un organo specifico o per una singola malattia (per es. la paura di avere una malattia cardiaca, un tumore, l’AIDS, ecc).


Tale preoccupazione, inoltre, tende a persistere nonostante la valutazione e la rassicurazione medica appropriata. Perché si possa parlare di ipocondria, infatti, una valutazione medica completa deve avere escluso qualunque condizione medica generale che possa spiegare pienamente i suoi segni o sintomi fisici (per quanto possa talora essere presente una condizione medica generale concomitante). L’ipocondria può esordire ad ogni età, sebbene la più colpita sia l’età adulta (con un picco tra la quarta e la quinta decade). È rara nell’infanzia e più frequente nell’adolescenza e nella vecchiaia. Il decorso tende a cronicizzarsi, con andamento vario, e sembra guarire spontaneamente solo in un decimo delle persone.


L’ipocondria può costituire una entità nosologica a sé stante (ipocondria primaria), oppure può accompagnarsi ad altre realtà cliniche (più frequentemente i disturbi dell’umore e dell’ansia): in tal caso si parla di ipocondria secondaria. Generalmente è l’ipocondria secondaria che ha più probabilità di essere affrontata attraverso un percorso psicoterapia in quanto l’ipocondria primaria tende ad essere appannaggio quasi esclusivo degli ambulatori di medicina generale (o specialistica) e questo perché gli ipocondriaci si presentano con la ferma convinzione di avere una malattia organica escludendo fermamente la presenza di una qualsiasi forma di disagio psicologico.


Chi soffre di ipocondria primaria, infatti, ricerca la soluzione medica della malattia: la sua è una preoccupazione legata alla paura o alla convinzione di avere una malattia, non la preoccupazione per la malattia. Il non riuscire mai a trovare una risposta adeguata al malessere viene vissuto con l’idea di essere ammalato e con le conseguenze che questo comporta in termini di sofferenza e preclusione rispetto ad ogni attività che non sia improntata alla soluzione del problema salute. Avendo la quasi certezza di avere qualcosa di grave, l’ipocondriaco può arrivare a vedere nel medico il migliore amico, l’unico in grado di rassicurarlo perlomeno momentaneamente.


L’ansia (ed in un secondo momento anche la depressione e la rabbia) è la risposta emotiva associata alla percezione di minaccia che entra in campo quando vengono attivati gli schemi di pericolo relativi alla salute fisica, minaccia che diventa intollerabile con l’aumentare dell’incertezza, fino ad istituire un’equivalenza tra l’incertezza ed il rischio di malattia. Ad un livello più profondo, infatti, l’ipocondriaco non si sente capace di prevedere la malattia e di influire su di essa ed adotta quindi una euristica di prevenzione (“se non ti preoccupi per la tua salute, potresti ammalarti” o “appena c’è qualcosa che non va ci si deve recare a fare un controllo medico, altrimenti sarà troppo tardi”) in cui prevedere non solo implica la possibilità di prevenire, ma è di per sé una forma di prevenzione.

In genere l’ipocondriaco reagisce a questo stato ansiogeno di allarme attraverso delle strategie comportamentali che, sebbene abbiano il fine di lenire lo stato di malessere (e nell’immediato hanno successo), finiscono a lungo termine con il contribuire al mantenimento del problema nel suo complesso. Tali strategie comportamentali, schematicamente, includono:

- Il controllo 
- L’evitamento
- Comportamenti protettivi 
- La ricerca di rassicurazioni 


La strategia del controllo risponde alla speranza illusoria di poter arrivare ad una certezza assoluta che possa fornire la garanzia che non sia presente o che non si avveri l’evento temuto (la malattia). Proprio per questo, l’ipocondriaco diventa una persona molto attenta ad ogni piccolo cambiamento somatico e tiene costantemente sotto controllo il suo fisico, monitorandolo di continuo alla ricerca di eventuali segni di malattia: tipicamente si osserva un aumento di attenzione per i processi fisici endogeni (come il ritmo cardiaco, l’attività gastrointestinale, la deglutizione, la respirazione, ecc); sugli aspetti esteriori del corpo (l’asimmetria del corpo, l’irregolarità delle macchie della pelle, la perdita o la crescita irregolare dei capelli e la grandezza delle pupille); o anche sulle secrezioni del corpo (ad esempio il colore della saliva, delle feci e dell’urina), ecc.
Sebbene, perlomeno inizialmente, l’esito negativo di un controllo possa essere stato in grado di garantire una momentanea riduzione dell’ansia legata alla possibilità (che l’ipocondriaco trasforma in probabilità) di essere malato, successivamente, ogni minima alterazione che nota, può fungere da conferma all’idea di avere una grave malattia. D’altra parte, i ripetuti controlli del corpo, come la palpitazione dell’addome per valutarne il disagio, o l’autoesame per valutare la presenza di sangue nel retto o per individuare noduli al seno o ai testicoli, possono causare irritazioni e lesioni del tessuto. Inoltre, respirare profondamente per verificare il funzionamento dei polmoni produce eccessiva tensione e dolore al torace; effettuare forzate deglutizioni per verificare anomalie alla gola, rende più difficile la deglutizione stessa o, infine, controllare il polso mettendo in evidenza le normali fluttuazioni dei battiti, producono un disagio che, a sua volta, può essere interpretato come un’ulteriore prova della presenza di una patologia somatica.


I comportamenti di evitamento possono assumere forme diverse, tra cui eludere alcune attività come sforzi fisici, oppure situazioni che espongono l’individuo a rimuginare sul proprio stato di salute o all’ansia (ad esempio cercando di controllare i propri pensieri nel tentativo di non pensare ai problemi di salute). In realtà, l’evitamento di comportamenti considerati a rischio, come l’esercizio fisico, impedisce alla persona di vivere esperienze in grado di smentire le proprie idee relative lo stato di malattia, mentre il tentativo di sopprimere certi pensieri spesso porta ad un paradossale incremento degli stessi.
Nei casi più estremi, la paura di contrarre malattie può indurre a tenere un comportamento sospettoso e di chiusura nei confronti del mondo esterno a quello parentale, temendo i pericoli e le prove insite nel mondo del lavoro e delle relazioni sociali. In questo modo l’ossessione della malattia arriva ad incidere sulla vita sociale dell’ipocondriaco ed a influire anche sulla vita di chi gli sta vicino.


Nell’ansia connessa allo stato di salute, i diversi comportamenti protettivi vengono messi in atto per ridurre il rischio di malattie future. Ad esempio, se la malattia temuta fosse relativa al proprio sistema cardiovascolare, la persona può assumere quotidianamente un’aspirina o delle vitamine aggiuntive, in assenza di specifiche indicazioni mediche. Entro certi limiti questo non produce effetti significativi sul corpo ma, in ogni caso, contribuisce a mantenere vivo il disagio relativo al benessere fisico e l’idea di essere deboli e di necessitare di tutte le cure possibili per non ammalarsi.
Un altro tipo di precauzione può essere invece quella del riposo protratto per lungo tempo; questo può condurre a complicazioni tra cui la perdita di agilità e forza del corpo che, a loro volta, possono essere considerate prove di una grave patologia in atto. In certi casi, chi soffre di ipocondria, analogamente a chi soffre di un disturbo ossessivo compulsivo, può arrivare ad effettuare (con una certa frequenza) una serie di riti (come per esempio lavarsi le mani) atti a scongiurare e proteggersi dalle insidie provenienti dall'ambiente che lo circonda, ed a consentire, allo stesso tempo, di attenuare il disagio provato. Esempi di comportamenti protettivi potrebbero moltiplicarsi ma, quanto hanno in comune, è l’effetto di contribuire a mantenere focalizzata l’attenzione sul problema e quindi ad intensificare i sintomi.


La rassicurazione può essere ricercata in vari modi dall’ipocondriaco: spesso viengono chieste al coniuge o ad altri familiari informazioni sul sintomo, oppure un’accurata descrizione di quelli manifestati da altri. Inoltre, si può ricorrere a consultazioni mediche, richieste di ulteriori valutazioni e indagini strumentali, o allo studio di articoli e libri di medicina, nel tentativo di giungere autonomamente ad una diagnosi che escluda patologie. In tutti questi casi, ciò che inizialmente ha il potere di tranquillizzare momentaneamente l’ipocondriaco, ben presto diventa motivo aggiuntivo di angoscia. Nel caso delle visite mediche, ad esempio, l’esito favorevole delle indagini, inizialmente in grado di mitigare l’angoscia, diventa insufficiente dal momento che il paziente sente esserci qualcosa che non va e il medico non giunge ad una diagnosi che dia senso al suo malessere.
L’esito delle indagini viene reinterpretato dal paziente sulla base delle proprie convinzioni: “il medico non è riuscito a capire la vera natura del mio problema” (a diagnosticarlo correttamente) e quindi non è stato in grado di fornire la soluzione adeguata. La malattia, e la ricerca di una diagnosi, possono così diventare un tema fisso e dominante: l'ipocondriaco inizia ad abusare di continue visite ed indagini specialistiche e, nonostante gli esiti negativi, non c’è esame, ripetuto anche più volte, che basti a tranquillizzarsi. Un ipocondriaco preoccupato di avere una malattia cardiaca, ad esempio, non si sentirà rassicurato dalla ripetuta negatività dei reperti delle visite mediche, dell'ECG, o persino della angiografia cardiaca. Quanto maggiore è la gravità attribuita al rischio di malattia, quanto più l’ipocondriaco tenderà a svalutare l’importanza di spiegazioni alternative dei sintomi, mettendo a fuoco unicamente solo le informazioni a conferma dell’idea di malattia. Ancora una volta, la tentata soluzione, finisce con l’alimentare il problema.


A peggiorare la situazione di chi soffre di ipocondria è, in certi casi, il modo in cui queste persone finiscono per l’essere considerate: dei “malati immaginari”. L’ipocondriaco – in realtà – avverte tutta la sintomatologia di una determinata patologia: quello che per una persona normale può essere un banale dolore intercostale, per l’ipocondriaco diventa un dolore toracico insopportabile e terrorizzante. Ed è vero che lo sente così perché è talmente sensibilizzato all’ascolto del corpo, che la sua soglia del dolore si abbassa e quindi percepisce il dolore con maggiore intensità. È da considerare, per di più, anche il fatto che la costante paura di ammalarsi, associata al rimuginio sulla malattia, costituendo di per sé una forma di autosuggestione, in alcuni casi può portare a somatizzare i sintomi della malattia in questione innescando un circuito di comunicazione fra psiche e soma che predispone all’insorgenza di malattie.


Concludendo, in misura proporzionale alla gravità del disturbo, la vita dell’ipocondriaco può polarizzarsi sul dilemma salute/malattia in modo progressivamente sempre più pervasivo. La preoccupazione riguardante le malattie temute può diventare un elemento centrale dell’immagine di sé, un argomento abituale di conversazione e un modo di rispondere agli stress della vita. Ciò facilita, nei pazienti ipocondriaci, la percezione di essere delle persone fragili, vulnerabili, deboli, facili alle malattie. Questa immagine di sé può generalizzarsi fino a costituire uno dei perni intorno al quale si costruisce il senso della propria identità.
D’altra parte, il concetto di salute (come polarità opposta a quello di malattia) è idealizzato dall’ipocondriaco come uno stato definitivo di sanità totale, costruito in uno scenario vago e privo di caratteristiche concrete: è difficile dire se questa idea di salute sia l’origine o la conseguenza delle preoccupazioni relative lo stato di malattia, anche se probabilmente l’idea di “salute” e di “malattia” costituiscono, nel quadro di riferimento dell’ipocondria, le due facce della stessa medaglia.





Agorafobia


L’agorafobia (o sindrome agorafobica) ha come caratteristica principale un'intensa paura di essere soli o di trovarsi in luoghi pubblici dai quali, nel caso di un improvviso malore, la fuga può essere difficile o l’aiuto non disponibile. Le attività usuali vengono sempre più ridotte man mano che le paure o i comportamenti di evitamento delle situazioni temute prendono il sopravvento sulla vita dell’individuo. Le circostanze più comunemente evitate includono l’essere tra la folla, per esempio in una strada, o in un negozio pieno di gente, oppure il trovarsi in un tunnel, su di un ponte, in ascensore o su un mezzo pubblico. Spesso chi soffre di agorafobia, uscendo di casa, preferisce essere accompagnato da un familiare o da un amico.

L'agorafobico, in genere, suddivide lo spazio in “zone sicure” e “zone pericolose”. In genere lo spazio viene percepito tanto più sicuro quanto più è vicino a casa propria o ad una persona significativa e di fiducia. Allontanandosi dalle zone sicure, l'ansia comincia a prendere il sopravvento: si sente vulnerabile e la mente si focalizza su tutti i possibili pericoli e gli incidenti che potrebbero capitare (come andare fuori strada con l’auto o investire un pedone, oppure perdersi, rimanere intrappolati in un ascensore, ecc). In questo modo l'ansia tende ad aumentare e ne compaiono i sintomi: tachicardia, dolori addominali, sensazione di soffocamento, di svenimento o di debolezza generalizzata, sudorazione eccessiva, ecc.

L’agorafobia, infatti, è molto spesso accompagnata da episodi ansiosi o da veri e propri attacchi di panico. Gli attacchi di panico, quando presenti, espongono all'esperienza spiacevole di non riuscire a gestire i propri stati interni e le proprie reazioni emotive. Questa componente tende non solo a minare il senso di sicurezza e di fiducia in se stessi ma, da un punto di vista evolutivo, scoraggia la costruzione di progetti centrati sull'autonomia personale. L’attacco di panico rafforza infatti la convinzione di aver bisogno di qualcuno che si prenda cura di noi. Si innesca così un circolo vizioso in cui gli attacchi di panico aumentano la dipendenza dagli altri e la sensazione di incapacità personale; queste, a loro volta, rendono più esasperato lo stato conflittuale e di insoddisfazione, facilitando ulteriormente la comparsa dell’ansia e del panico.


Ne conseguono evitamenti sistematici e limitazioni più o meno gravi nella possibilità di muoversi e di spostarsi da soli. Si passa da limitazioni abbastanza lievi in cui al massimo può essere compromessa la possibilità di fare lunghi viaggi autonomamente, a limitazioni più gravi in cui diventa difficile portare avanti anche attività normalmente considerate elementari come fare la spesa o recarsi in ufficio. Nei casi estremi si può arrivare addirittura a vivere reclusi in casa propria dipendendo completamente dai familiari.

 La sintomatologia agorafobica è spesso l'espressione del conflitto tra la naturale spinta evolutiva verso l’autonomia e l’opposto desiderio di rimanere in un ambiente noto e familiare. Tale conflitto è assolutamente naturale ed è tipico del passaggio dalla fase adolescenziale a quella adulta. In certi casi, però, l’impulso ad andarsene è in contrasto con la percezione dell'incapacità a vivere per conto proprio. Quando l'evoluzione verso una vita autosufficiente viene in qualche modo minata dal dubbio di non farcela nasce un dilemma. La mancata soluzione a questo dilemma spesso finisce col farci sentire in trappola: la sensazione di dipendere dagli altri è frustrante e avvilente ma, la lontananza da questi, genera un forte senso di paura e precarietà.

I propri vissuti possono oscillare tra il desiderio di sentirsi liberi, per cui si diventa sensibili al controllo ed alle interferenze da parte degli altri, e il bisogno di protezione, per cui si cercano gli altri per ottenere rassicurazione e assistenza, si reagisce alle minacce con il desiderio di fuggire e si interpretano i sintomi dell'ansia come segno di uno scompenso fisico e psicologico. Prevedibilmente, tale conflitto si acuisce quando ci sentiamo costretti, dalle situazioni della vita o dalle aspettative (nostre o degli altri), ad assumerci delle responsabilità. Non credendo nelle nostre possibilità, arriviamo ad immaginare che, anche un piccolo sbaglio da parte nostra, sarà sufficiente a produrre effetti catastrofici. Le responsabilità finiscono così con l'essere vissute come una minaccia al proprio equilibrio per cui, di fronte alle responsabilità, spesso i sintomi dell'agorafobia peggiorano. Esempi classici sono la nascita di un figlio, un aumento di responsabilità a casa o a lavoro, ecc.

Come disturbo, l’agorafobia sembra essere più comune tra le donne e il periodo d'insorgenza si colloca in genere tra i venti e i trent’anni. Il disturbo interessa circa il 2-3% della popolazione generale e, nonostante non esistano studi rigorosi al riguardo, molti ricercatori ipotizzano un decorso cronico in assenza di trattamento. Spesso i pazienti che soffrono di agorafobia si rivolgono ad un terapeuta solo dopo diversi anni dall'insorgenza del disturbo e, alcune volte, il solo raggiungere lo studio del terapeuta costituisce il primo traguardo verso la soluzione del loro problema.


La terapia dell'agorafobia generalmente procede per fasi. Quando è complicata dalla presenza di un disturbo da attacchi di panico, il lavoro si focalizza inizialmente sulla gestione dell'ansia e del panico. La fase successiva, in genere, si concentra da un lato sul graduale incremento delle libertà personali (inclusa la possibilità di ampliare il proprio raggio d'azione), dall'altro sulla ricostruzione di uno stile relazionale basato sulla reciprocità (piuttosto che sul bisogno dell'altro). Passo dopo passo, superando le proprie paure, il paziente sperimenta l'ampliarsi dei propri orizzonti e può così recuperare un senso di efficacia e di sicurezza che gli consentirà di riprogettare la propria vita in linea con le sue inclinazioni e le sue aspirazioni.

Disturbo da Attacchi di Panico


L'attacco di panico


Gli attacchi di panico, come riportato dal manuale diagnostico psichiatrico (DSM IV), consistono in un'improvvisa manifestazione di ansia o una rapida escalation di quella solitamente presente. Nel particolare, un episodio può essere caratterizzato da risposte fisiche quali:
  • palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia;
  • sudorazione;
  • tremori fini o a grandi scosse;
  • dispnea o sensazione di soffocamento;
  • sensazione di asfissia;
  • dolore o fastidio al petto;
  • nausea o disturbi addominali;
  • sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento;
  • parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio);
  • brividi o vampate di calore.
Chi sperimenta un attacco di panico avverte una perdita di controllo, una sensazione di dissolvimento del sé. La paura (o un livello molto forte di ansia) prende il sopravvento sulla capacità decisionale della persona che si percepisce in forte pericolo e senza risorse per reagire, in una sorta di stato dissociato che può portare ad una fuga più o meno precipitosa. Generalmente il picco del panico viene raggiunto nell'arco di dieci minuti ed è classicamente connotato dalla paura di morire o di impazzire.

Il primo attacco di panico solitamente coglie di sorpresa e segnala la rottura di un equilibrio. È un'esperienza emotivamente dolorosa e destabilizzante che, molto spesso, viene confusa con un malore di tipo fisico: non a caso, la prima reazione è spesso quella di rivolgersi ad un medico o al pronto soccorso. Scoprire di aver vissuto un attacco di panico ci pone implicitamente di fronte al fatto di dover riflettere su noi stessi e modificare il modo in cui gestiamo la nostra emotività.

Dalla paura all'attacco di panico


Il panico è una forma estrema di paura. Esiste un continuum di percezioni ansiose che possono oscillare dall'esitazione fino all'ansia, alla paura, al panico: normalmente, quanto maggiore è la percezione di un pericolo, e più grave la posta in gioco, tanto maggiore sarà l'intensità della risposta alla minaccia (reale o percepita). La paura è un'emozione provata in tutto il regno animale e serve a preparare l'organismo ad affrontare e a reagire ad un pericolo. Si tratta di una reazione che coinvolge l'intero organismo e può essere innescata, negli esseri umani, tanto da una percezione mediata dai propri sensi, quanto da immagini mentali di tipo sia realistico che fantastico. Nel panico assistiamo ad un'esaltazione di tutti i sintomi della paura insieme alla perdita delle proprie capacità di autocontrollo.

Non a caso il controllo è l'ingrediente principale nel processo di trasformazione dall'ansia, alla paura, al panico. Una reazione classica di fronte all'ansia e alla paura è costituita, infatti, proprio dal tentativo di ripristinare un controllo sulla situazione cercando di reprimere, con vari espedienti, queste emozioni. In questo modo la nostra volontà e la nostra emotività entrano in conflitto e, cosa ancora peggiore, iniziamo a trattare quest'ultima come un qualcosa di pericoloso, una minaccia da temere. Quando arriviamo a percepire l'ansia e la paura come una minaccia, il nostro organismo reagisce con paura alla paura entrando così in un corto circuito: la concentrazione si focalizza sul pericolo, il cervello esamina velocemente azioni alternative sotto pressione, dissociandosi da ogni altro pensiero. In questo stato possiamo arrivare a percepire confusione, stordimento, vertigini, un senso di estraneità da noi stessi e assenza. L'intensità dei sintomi della paura aumenta esponenzialmente in un'escalation che porta al panico.

Dopo aver raggiunto il suo picco, l'intensità dei sintomi tende a defluire: gradualmente si torna al proprio stato di attivazione abituale, anche se spossati e privi di energie. Nonostante possa risultare superfluo, è importante sottolineare che, sebbene nei momenti peggiori di un attacco si può avere l'impressione di stare per morire, nessuno è mai morto a causa di un attacco di panico.

Il disturbo da attacchi di panico


Esistono fondamentalmente tre tipi di disturbo da attacchi di panico che si differenziano tra loro in relazione all'esordio e alla presenza di fattori situazionali scatenanti. Il disturbo può essere caratterizzato da:
  • attacchi di panico improvvisi, inaspettati e non associati a nessuna situazione in particolare
  • attacchi di panico che si manifestano invariabilmente prima o durante una situazione in particolare
  • attacchi di panico sensibili ad una situazione, ossia che hanno più probabilità di manifestarsi dopo quella specifica situazione
In seguito ad un attacco di panico (o all'esperienza di numerosi attacchi di panico) può insorgere - ma non è una regola - la paura relativa alla possibilità che possa verificarsi nuovamente un attacco di panico in situazioni in cui potrebbe essere difficile da gestire. Possiamo così sviluppare la paura della paura.

Soprattutto in quei casi in cui gli attacchi di panico si manifestano preferenzialmente in associazione a qualche situazione particolare, tale paura può portare ad evitare le situazioni ritenute potenzialmente "a rischio". Evitando tali situazioni, non solo tendiamo a limitare il nostro stile di vita, ma finiamo con il conferamre un'idea di noi stessi come persone vulnerabili, favorendo ulteriormente i vissuti di ansia e paura. È il caso, ad esempio, della sindrome agorafobica in cui gli attacchi di panico giocano spesso un ruolo cruciale. L'agorafobia è caratterizzata infatti dall'intensa paura di rimanere soli o di trovarsi in luoghi dai quali, nel caso di un malore o di un attacco di panico, la fuga potrebbe essere difficile o l'aiuto non disponibile.

La terapia del disturbo da attacchi di panico


Sebbene il panico si associ spesso ad altre problematiche, in genere costituisce l'aspetto più urgente da risolvere per chi ne soffre. Per questo motivo, la fase iniziale della terapia si focalizza sull'aspetto sintomatico evitando così che il paziente rimanga troppo a lungo vittima dei limiti imposti dal panico.Tale lavoro si concretizza spesso nell'apprendimento e nell'utilizzo di strategie che, da un lato mettono il paziente in grado di gestire il panico, e dall'altro ne impediscono la ricomparsa. In questa fase si assiste in genere ad una graduale e progressiva riduzione dei sintomi. Nelle tappe successive, una volta fuori dal circolo vizioso degli attacchi di panico, la terapia si focalizza sul recupero di tutte quelle situazioni di vita che eventualmente sono state compromesse dal disturbo fino al raggiungimento di un livello di benessere ottimale: il paziente ha la possibilità, in questa fase del suo lavoro, di riorientarsi in una realtà priva del panico (ed in più, con l'esperienza e la consapevolezza di saperlo e poterlo gestire).


Disturbo d'ansia sociale

Il disturbo d'ansia sociale è una realtà clinica piuttosto comune che, spesso, si associa ad altri disturbi: in primis al disturbo da attacchi di panico e alla depressione. Nelle sue forme più acute può condizionare pesantemente lo stile di vita minando l'autostima e la fiducia nelle proprie capacità.
Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV) il disturbo d'ansia sociale (o fobia sociale) è caratterizzato da una "marcata paura di esporsi a una o più situazioni sociali o di eseguire in pubblico – e sotto osservazione – alcune semplici azioni, valutate dalla persona come vere e proprie prestazioni: essere presentati a persone sconosciute (soprattutto se ritenute importanti), parlare in pubblico, cibarsi davanti ad altre persone (ospiti o talora anche familiari), scrivere di fronte agli altri, utilizzare il telefono in pubblico, fare la fila al supermercato, ecc".

In genere, le situazioni temute sono caratterizzate dalla paura di poter essere osservati, giudicati o valutati negativamente come persona inadeguata e ridicola. In tali circostanze chi soffre di ansia sociale può fare esperienza, in misura più o meno ampia, di tutta la costellazione sintomatica tipica dell'ansia e della vergogna: alla componente somatica dell'ansia  (tremori, rossore, vampate di calore, sudorazione, palpitazioni, ipertono muscolare, confusione mentale, discinesie gastrointestinali) si associano le reazioni comportamentali della vergogna (rossore del viso, postura dimessa e sfuggente, capo chino, tendenza ad abbassare lo sguardo, desiderio di sprofondare, ecc).

A soffrire di ansia sociale sono in genere persone intelligenti, sensibili ed introverse che, tuttavia, hanno maturato un'immagine di sé come inadeguate. Il senso di inadeguatezza tende a condizionare il modo in cui ci si relaziona con il mondo esterno: da un lato inibendo la spontaneità dell'espressione di sé, dall'altro amplificando l'importanza attribuita al giudizio degli altri.

La spontaneità viene sacrificata nel tentativo di eliminare il rischio (e la paura) di sbagliare di fronte agli altri attraverso il controllo di ogni aspetto del proprio stato interno, della propria attività comunicativa verbale e non verbale, col fine di rimandare un'immagine di sé positiva ed al tempo stesso di celare la propria insicurezza. Questa modalità di relazione spesso finisce con il complicare le interazioni rendendole più superficiali ed insoddisfacenti. In questo modo, infatti, si è così concentrati sui controlli e sulle strategie che adoperiamo per evitare i rischi, da non riuscire a dedicare la  minima attenzione agli altri ed alla situazione sociale nel suo complesso.

La strategia del controllo, col tempo, può farsi ancora più pervasiva: il controllo non si limita più alla dimensione presente durante le situazioni temute, ma finisce con l'invadere anche il prima ed il dopo attraverso una forma tipica di pensiero: il rimuginio. Il rimuginio antecedente alla circostanza sociale porta ad immaginare ripetitivamente la scena del proprio futuro disastro sociale (senza peraltro riuscire a trovare la soluzione al problema), come in una sorta di preparazione all'evento. Il rimuginio successivo alla circostanza sociale spinge ad impiegare tempo ed energie a ripensare, rianalizzare e rivivere episodi fallimentari del passato. In questo modo, piuttosto che ottenere un miglior controllo sulle situazioni temute, non facciamo altro che alzare la posta in gioco dal punto di vista emotivo, rendendo la percezione dell’evento temuto come qualcosa di ancora più pericoloso,  insostenibile ed ansiogeno.

Quando mettiamo da parte la nostra spontaneità, rinunciamo ad essere noi stessi ed iniziamo a costruirci l'idea che, per andar bene agli altri, dobbiamo sforzarci di essere, di dire o fare le cose in un certo modo (spesso molto lontano dal nostro): le relazioni sociali si trasformano in vere e proprie "prestazioni" oggetto di giudizio da parte degli altri. Il giudizio degli altri diventa  determinante e temuto al tempo stesso e tendiamo a strutturare l’immagine che abbiamo di noi sulla base di questo e di un successo sociale che non arriva mai. Lo scopo principale nel relazionarsi agli altri diventa quello di fare bella figura, di lasciare un’immagine di sé positiva: a tal fine possiamo arrivare ad abbandonare il nostro personale punto di vista su noi stessi ed iniziare a guardarci "con gli occhi degli altri", decentrandoci sempre di più con domande del tipo: cosa penserà di me? che impressione gli avrò fatto?...

 Ed è proprio la paura di essere giudicati negativamente che spesso finisce con l'innescare l'ansia nelle situazioni temute: lo stato ansioso in eccesso determina uno scadimento delle capacità relazionali che, a loro volta, finiscono per confermare l'idea della propria incapacità di trasmettere agli altri un'immagine di sé positiva. Il rischio di fare una brutta figura alimenta una sempre più marcata intolleranza all'incertezza degli eventi. Infatti, nelle sue peggiori fantasie, chi soffre d'ansia sociale spesso si ritrova goffo, impacciato o col volto rosso e sudato. E, come per una profezia che si autoavvera, le fantasie finiscono con il trasformarsi in realtà alimentando l'insicurezza personale.

L'insicurezza è una condizione emotiva di cui tutti abbiamo fatto esperienza e che si manifesta prevalentemente attraverso una sensazione di smarrimento che ci fa dubitare di quello che pensiamo e ci fa temere di prendere decisioni sbagliate. L'insicurezza di per sé non è dannosa, anzi, in taluni casi può essere utile a farci compiere scelte migliori. Tuttavia può diventare un serio problema quando, anziché essere legata ad una specifica situazione, diventa una sensazione persistente, che interessa più ambiti, e che si fa sentire nel quotidiano anche rispetto a situazioni banali. Può diventare un tratto di personalità che guida e condiziona quasi tutte le attività.


Per concludere, a volte le situazioni sociali possono diventare talmente cariche dal punto di vista emotivo che, nel peggiore dei casi, nonostante il desiderio di conoscere nuove persone ed avere una vita sociale appagante sia molto vivo, preferiamo evitare tali situazioni per non farci carico di tutta l'ansia, la tensione e lo stress che queste comportano. Relazionarsi con gli altri diventa uno sforzo troppo impegnativo.

La psicoterapia dei disturbi di ansia sociale ha come obiettivo implicito lo sblocco delle situazioni problematiche aiutando la persona a ricentrarsi recuperando il proprio punto di vista, favorendo l'autodeterminazione e sviluppando le abilità necessarie a sperimentare un senso di efficacia personale. La persona può tornare ad investire sulla propria individualità e sull'espressione delle proprie potenzialità ritrovando il proprio equilibrio attraverso la naturalezza e la spontaneità.




Disturbo d'ansia generalizzata

Il Disturbo d’ansia generalizzata (DAG) è una realtà clinica che caratterizza quei soggetti che appaiono cronicamente ansiosi e apprensivi e che, versando in uno stato di eccessiva preoccupazione per le circostanze quotidiane, vivono una condizione costante di allarme ed ipervigilanza. Le caratteristiche principali del disturbo d’ansia generalizzata includono la presenza di ansia (una preoccupazione sottoforma di attesa apprensiva), la difficoltà nel gestire la preoccupazione e qualcuno dell’insieme dei sintomi che l’accompagnano:
- irrequietezza o sentirsi tesi e con i nervi a fior di pelle
- facile affaticabilità
- difficoltà o vuoti di memoria
- irritabilità
- tensione muscolare
- alterazione del sonno (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, o sonno inquieto e insoddisfacente)


In linee generali, il tratto che caratterizza il disturbo d'ansia generalizzata è la presenza di ansia persistente in concomitanza alla componente somatica da essa attivata. La componente somatica associata all’ansia è costruita da sintomi a carico del sistema neurovegetativo che favoriscono l'alterazione dell’attività cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del sistema neuromuscolare, dell’apparato gastrointestinale, del tratto urinario e della pelle. Spesso la componente somatica del disturbo è ciò che motiva i pazienti a consultare il medico di famiglia, l’internista, il cardiologo, lo pneumologo, il gastroenterologo, prima di rivolgersi ad uno psicoterapeuta.


Dal punto di vista psicologico, nel disturbo d’ansia generalizzata l’apprensione è uno stato di preoccupazione costante (anche se fluttuante) orientata verso l'esterno: verso un mondo vissuto come pieno di minacce e di pericoli. Sebbene nel vissuto ansioso vi sia una tendenza a concentrarsi su alcuni timori (il timore per la salute fisica, il timore per la sorte di persone care, il timore di eventi esterni imprevisti), nel disturbo d’ansia generalizzato non vi è la focalizzazione dell’attenzione su un particolare parametro (come accade nel panico o nell’ipocondria – in cui l’attenzione si concentra sui segnali fisici – o nell’ossessività, in cui l’attenzione si concentra sui pensieri di responsabilità e colpa). Chi soffre un disturbo d’ansia generalizzata è in genere poco attento ai suoi segnali interni, sia fisici che mentali. La sua attenzione è piuttosto diretta alla realtà esterna, percepita come minacciosa e affrontata con uno stato d’animo che risponde ad una euristica del tipo: “le cose andranno comunque a finire male” .


Altra caratteristica tipica di chi soffre di un disturbo d’ansia generalizzata è che, sebbene la persona sia poco attenta ai propri stati interni, ne sviluppa il timore: la persona tende ad inibire le emozioni vissute anch’esse come minacciose. Il dilemma tranquillità/vulnerabilità e allerta/sicurezza è la forma che assume il conflitto di chi soffre questo disturbo: la quiete viene valutata come incoscienza, impreparazione al pericolo incombente, mentre la preoccupazione diventa qualcosa di positivo, attraverso euristiche del tipo: “Faccio bene a preoccuparmi, il mondo è pericoloso!” oppure “Se non mi preoccupo le cose potrebbero peggiorare irrimediabilmente”. In questo stato di apprensione, il “rimuginio” diventa un modo per affrontare le situazioni, controllare la realtà e prevenire i problemi: l’attenzione può arrivare a focalizzarsi anche senza sosta sui potenziali pericoli.



Come tutte le persone ansiose, chi soffre di un disturbo d’ansia generalizzata (DAG), si giudica negativamente e può arrivare a nutrire la convinzione di essere particolarmente apprensivo per “debolezza” perché si fa “impressionare troppo”, perché “non riesce a fregarsene” o perché ci “pensa troppo”, costruendosi così la fantasia della “persona forte” idealizzata come di una persona che non sperimenta mai insicurezza, ansia, timore, paura, ecc. L’immagine di sé favorisce il passaggio dall’intolleranza all’incertezza, in modo più o meno consapevole. La persona può o meno riconoscere razionalmente che il mondo non è poi così pericoloso, tuttavia non tollera l’intrinseca incertezza degli eventi: qualsiasi esito negativo, di per sé, diventa insopportabile. In altre parole, solo la certezza assoluta della sicurezza viene ritenuta un criterio accettabile per tranquillizzarsi, e questo favorisce, a sua volta, il rimuginio come forma di controllo e prevenzione delle situazioni di vita.


Un buon parametro per valutare la gravità del disturbo è la tendenza ad evitare le situazioni vissute come minacciose. L’evitamento ha due conseguenze importanti: la prima è che, evitando, le ipotesi catastrofica non hanno modo di essere disconfermate dall’esperienza di sopportazione e di gestione del pericolo; la seconda conseguenza sono gli effetti prevedibili che l’evitare comporta in termini di autostima personale: quanto più la persona intuisce l’eccessività dei propri timori, tanto più questa forma di consapevolezza, invece di indurre ad un’autocritica potenzialmente costruttiva, porta la persona ad interpretare le proprie reazioni di evitamento come un segno di debolezza: ci si inizia a paragonare agli altri e ci si vede vulnerabili e fragili.


La ricerca epidemiologica ha permesso di stimare la prevalenza del disturbo d’ansia generalizzata in percentuali che variano dal 3% all’8% di coloro che richiedono un intervento sanitario. In assenza di terapia, il corso del disturbo tende ad essere cronico fluttuante (peggiorando nei periodi di stress). L’età d’esordio è, invece, spesso difficile da definire con esattezza in quanto la maggior parte dei pazienti ha la sensazione di “essere stato sempre ansioso”.


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